Il problema “plastica”.
L’ecosistema richiede azioni importanti da parte dell’uomo.
La plastica ci sta letteralmente sommergendo e sta avvelenando ecosistemi terrestri e marini. Ogni anno negli oceani del pianeta si riversano otto milioni di tonnellate di plastica, con conseguenze nefaste su tutta la catena alimentare. Per contrastare questa catastrofe ambientale non bastano geniali invenzioni come la macchina progettata da Boyan Slat per ripulire i mari, occorrono misure più radicali e condivise. In questa direzione si è mossa la Commissione europea che ha adottato una strategia che propone di rendere tutti gli imballaggi di plastica riutilizzabili o riciclabili entro il 2030 e di ridurre il consumo di materie plastiche monouso e di microplastiche. Inoltre, gli stati membri saranno obbligati a raccogliere il 90 per cento delle bottiglie di plastica entro il 2025.
Cosa sono le microplastiche.
La loro pericolosità è stata dimostrata da diversi studi scientifici.
Le microplastiche sono quelle piccole particelle di plastica che inquinano i nostri mari e oceani. Si chiamano così perché sono molto piccole e hanno un diametro compreso in un intervallo di grandezza che va dai 330 micrometri e i 5 millimetri. La loro pericolosità per l’ambiente è stata dimostrata da diversi studi scientifici, i danni più gravi si registrano soprattutto negli habitat marini ed acquatici. Ciò avviene perché la plastica si discioglie impiegandoci diversi anni e fintanto che è in acqua può essere ingerita e accumulata nel corpo e nei tessuti di molti organismi. Esistono anche particelle più piccole, che prendono il nome di nanoplastiche, ma date le dimensioni sono impossibili da campionare con le attrezzature ad oggi a disposizione. Di queste, dunque, sappiamo ancora poco.
Da dove nascono le microplastiche? La presenza delle microplastiche negli oceani è causata dalla produzione industriale di plastica non riciclabile che dagli anni Trenta alla prima decade degli anni Duemila è passata da 1,5 milioni di tonnellate a oltre 280 milioni di tonnellate. La conseguenza è ovvia: più plastica viene utilizzata, più ne viene buttata, direttamente o indirettamente, nei mari: almeno otto milioni di tonnellate l’anno, secondo Greenpeace. Gli impianti di trattamento delle acque sono in grado di intrappolare plastiche e frammenti di varie dimensioni mediante vasche di ossidazione o fanghi di depurazione, tuttavia una larga porzione di microplastiche riesce a superare questo sistema di filtraggio, giungendo in mare dopo essere stata gettata nei fiumi che sfociano nei mari e negli oceani.
La plastica, una volta arrivata in mare, può impiegare anche mille anni per degradarsi. Quando finisce in acqua si discioglie in frammenti più piccoli per molti motivi, dall’effetto dei raggi ultravioletti al vento, dalle onde ai microbi e alle alte temperature. Dato che sono tanti gli elementi che concorrono al deterioramento della plastica in mare, è difficile dire con precisione quanto un singolo polimero impiega a diventare microplastica. A prolungarne la frammentazione concorrono inoltre anche gli additivi chimici utilizzati durante la produzione che conferiscono ai materiali determinate caratteristiche, come le plastiche antimicrobiche o i ritardanti di fiamma che le rendono più resistenti ai raggi ultravioletti, fino all’impermeabilità.
Una volta in mare queste sostanze vengono ingerite dalla fauna arrivando addirittura a modificare la catena alimentare. Il 15-20 per cento delle specie marine che finiscono sulle nostre tavole contengono microplastiche secondo l’Ispra, mentre per i ricercatori dell’Università nazionale d’Irlanda che hanno pescato nel mare del Nord i pesci mesopelagici che vivono tra i 200 e i 1.000 metri di profondità, la percentuale salirebbe addirittura al 73 per cento.
Plastica nell’acqua che beviamo.
Contaminata anche la catena alimentare
Queste direttive aiuteranno a ridurre l’inquinamento in futuro, nel frattempo però dobbiamo fare i conti con la situazione attuale dove la plastica è arrivata a contaminare perfino l’acqua che beviamo, sia quella del rubinetto, ma sorprendentemente anche quella minerale in bottiglia. La quantità di microplastiche contenute in quest’ultima infatti è risultata essere nettamente superiore. I ricercatori della State University of New York in Fridonia hanno analizzato 259 bottiglie di 11 marche diverse, tra cui l’italiana San Pellegrino. Di queste, solo 17 erano prive di plastica.
Stando allo studio commissionato da Orb Media, un’organizzazione non profit di Washington, un litro di acqua in bottiglia contiene in media 10,2 fibre di plastica dello spessore di un capello umano. L’acqua del rubinetto, invece ne contiene 4,45. Il numero di particelle più sottili sarebbe persino più elevato: 314,6. Una delle bottiglie analizzate ne conteneva 10mila. Secondo questi studi, la maggior parte di fibre di plastica si trova nelle acque in bottiglia di plastica, ma anche quelle di vetro non sono risultate immuni alla contaminazione. Questa ricerca ha voluto dimostrare come la plastica sia ormai dappertutto perfino nei beni di prima necessità.
Nel 2018 un ulteriore allarme è stato lanciato da alcuni scienziati austriaci che hanno confermato la presenza di microplastiche nelle feci umane. Secondo questa ricerca alcune minuscole particelle di polimeri sono giunti all’uomo probabilmente ingerendo cibo o liquidi contenenti residui di plastica (ancora da capire). Lo studio per ora è stato effettuato dai ricercatori dell’Agenzia dell’Ambiente austriaca su un piccolo gruppo di otto partecipanti provenienti da Europa, Giappone e Russia. Nelle feci di tutti coloro che sono stati esaminati sono state trovate particelle di microplastiche: ben nove tipi diversi di polimeri su dieci varietà testate. Le più comuni? Polipropilene e polietilene tereftalato.
Se le loro conclusioni verranno confermate anche su larga scala, questo significherebbe che metà della popolazione potrebbe averle. Le dimensioni delle particelle andavano da 50 a 500 micrometri. “Le particelle microplastiche più piccole sono in grado di entrare nel flusso sanguigno, nel sistema linfatico e possono persino raggiungere il fegato” ha detto Philipp Schwabl ricercatore presso l’Università di Medicina di Vienna che ha diretto lo studio. “Ora che abbiamo le prime prove di microplastiche negli esseri umani, abbiamo bisogno di ulteriori ricerche per capire cosa questo significhi per la salute umana” precisando che i nuovi esami potrebbero indicare anche la possibilità che ci siano collegamenti con malattie gastrointestinali.
In bottiglia o del rubinetto?
Quale acqua contiene meno “plastica”?
Gli italiani bevono molta acqua in bottiglia. L’Italia è al quinto posto in Europa per la qualità dell’acqua di rubinetto, dopo Austria, Svezia, Irlanda e Ungheria. Eppure siamo tra i maggiori consumatori di acqua in bottiglia, terzi al mondo. Prima di noi solo il Messico, che fa registrare un consumo di 264 litri di acqua pro capite e la Thailandia, con 246 litri. I nostri connazionali “si fermano” a 196 litri l’anno. Sette miliardi di bottiglie (solo in Italia) da smaltire ogni anno, senza contare trasporti e logistica.
Per ovviare al problema, si potrebbe optare per l’installazione di un sistema di filtraggio domestico.Tra i più semplici, esistono sul mercato i sistemi a microfiltrazione a carbone attivo, che permettono di ridurre la presenza del cloro e di alcuni sedimenti. Viene infatti utilizzato del carbone vegetale che si comporta come una pietra estremamente porosa. Ma se si vuole intervenire sui sali disciolti, sugli inquinanti emergenti (come ormoni derivati di farmaci, Pfas e Pfoa) o sugli elementi indesiderati (come il cromo esavalente, l’arsenico, il cadmio, il piombo e il mercurio) è necessario installare dei sistemi a osmosi inversa.
Un impianto a osmosi inversa, soprattutto quando combinato ad un sistema ad ultrafiltrazione, è infatti un utile strumento per avere in casa un’acqua batteriologicamente perfetta. Questa tecnologia, grazie all’impiego di una particolare membrana, riesce a filtrare elementi indesiderati come nitrati e pesticidi, impedendo inoltre il passaggio di batteri, virus ed endotossine. Questo sistema permette di avere un’acqua più buona e più sicura.
Scegliere un sistema di filtrazione dell’acqua domestica riduce l’impatto ambientale non solo perché elimina l’utilizzo e lo smaltimento delle bottiglie di plastica ma anche l’emissioni di CO2 che si otterrebbero per produrle.
Si stima che per produrre 1 kg di Pet, con cui vengono prodotte circa 28 bottiglie di plastica da 1,5 litri, si utilizzino 2 kg di petrolio; quindi per 37,5 litri di acqua da bere in bottiglia vengono rilasciati in atmosfera 2,8 kg di CO2. L’installazione di un impianto a osmosi inversa permette di ridurre i consumi di acqua in bottiglia, di plastica e di conseguenza anche le emissioni di CO2: circa 150 kg pro capite in un anno. Senza dimenticare il risparmio economico per gli utenti: l’acqua del rubinetto filtrata costa comunque la metà di quella in bottiglia.